Chi in
pubblico fa tremare i fragili dalla
paura,
in
privato si spaventa se in mezzo ai denti riscontra tracce di verdura.
All’assioma non si sottrae Aloe Vera,
temendo,
più di chiunque altro, dello specchio il giudizio,
oracolo
dall’impietoso responso incuneato in ciò che è,
tra
comprensione e angherie, un interstizio.
Quello
del portacipria la distorce, intralciandole il make up,
indispettita
risponde con un irridente clap clap.
Trousse o
specchiera non vi è alcuna differenza,
l’immagine
di rimando non è riflessa,
bensì di
rottura e risultato di una deviata rifrangenza.
Aloe si
appella contro la sentenza
di una
slavata Tundra,
portavoce
della sua coprente coscienza.
Pigmento
insolubile in corruzione,
inzaccherata
di talco di depressione,
sul
grande schermo di lastre a parete
si palesa
come palla al piede,
stretta
tra gli algidi ghiacci della diffidenza
e la
taiga della buona fede.
Alberi di
speranza non svettano nei suoi cieli,
muschi e
licheni soppiantano radici
che non
attecchiscono in meandri così crudeli.
L’estate
è in Tundra pressoché inesistente,
piovono
contenute lacrime solo su qualche salice,
piangente
ovviamente.
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